Un bavaglio per i dipendenti pubblici

Tra le misure repressive adottate dal nuovo governo è passato quasi inosservato il varo del nuovo  “Codice di comportamento dei dipendenti pubblici.” Approvato come schema dal Consiglio dei Ministri il 1 dicembre si appresta ad essere promulgato a breve sotto forma di decreto del Presidente della Repubblica (DPR).

Accanto a tanti bei discorsi sul divieto di discriminazione per etnia, genere o altri motivi, sulla crescita professionale dei dipendenti e persino sul rispetto dell’ambiente e sul risparmio energetico, il punto nodale  è rappresentato dall’articolo 11 ter, comma 2, secondo cui il dipendente “In ogni caso è tenuto ad astenersi da qualsiasi intervento o commento che possa nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione di appartenenza o della pubblica amministrazione in generale”.

Questo divieto vale non solo nell’utilizzo degli account di servizio (art. 11 bis), ma persino quando, pur utilizzando i propri social media personali, si sia ben chiarito che le opinioni espresse non sono “in alcun modo attribuibili all’amministrazione di appartenenza” (art. 11 ter, comma 1).

Vale a dire che, d’ora in poi, l’infermiera/e che denunci le pessime condizioni dell’ospedale in cui opera, l’impiegata/o che evidenzi la mancanza di sicurezza dell’ambiente di lavoro, il/la docente che metta in luce la pericolosità dell’alternanza scuola lavoro e i difetti della scuola-azienda rischiano sanzioni disciplinari che possono arrivare fino al licenziamento.

Ovviamente non si tratta di casi del tutto nuovi. Ricordiamo la vicenda emblematica del ferroviere Dante De Angelis, colpito nel corso degli anni da ogni sorta di sanzioni e licenziato per ben due volte da Trenitalia per aver, in veste di rappresentante dei lavoratori per la Sicurezza, denunciato gravi situazioni di pericolosità. In questi casi De Angelis è riuscito a far valere le sue ragioni (sostenuto dalla solidarietà della categoria) dopo estenuanti battaglie legali. Trenitalia, tra l’altro,  pur di proprietà statale, è formalmente un ente privato.

Non mancano altri esempi. All’inizio della pandemia un lavoratore fiorentino è stato licenziato per aver criticato le misure assunte dall’azienda per limitare il contagio. Anche in questo caso il lavoratore ha poi ottenuto il reintegro per vie legali.

In tempi più recenti però una sentenza del Tribunale di Roma (sez. lav., 08/07/2021, n.6644) ha considerato  legittimo il licenziamento per giusta causa di un sindacalista che nel criticare l’azienda non aveva rispettato  “i canoni di continenza formale e sostanziale”(formula quanto mai generica e opinabile).

E che dire del diritto di critica riconosciuto dalla Costituzione ? Ovviamente, come per tutti i diritti formali benignamente concessi dalla legge, vale solo per chi abbia la forza di farli valere!

Fin qui stiamo parlando di militanti sindacali, persone quindi teoricamente attrezzate a sostenere un conflitto con la proprietà, sostenute da una organizzazione e persino “tutelate” dallo Statuto dei Lavoratori.

È facile prevedere che l’effetto intimidatorio della nuova norma sarà dirompente nei confronti del lavoratore medio. Già oggi quando si compiono inchieste nelle scuole e negli ospedali il personale è estremamente restio a rilasciare dichiarazioni critiche se non sotto il vincolo del più stretto anonimato.

Occorre mobilitarsi per respingere questa ennesima stretta repressiva, consapevoli che gli unici diritti che abbiamo sono quelli che sappiamo conquistarci e difenderci.

Mauro De Agostini

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